Ma il SSN c’è ancora?

Ma il SSN c’è ancora?

Ma il SSN c’è ancora?

Nell'ultimo decennio tagliati 71mila letti, chiuso un ospedale pubblico su 4 e personale sceso di 24 mila unità.

Il Servizio sanitario nazionale è stato il grande protagonista del dibattito di questo inizio di settimana nell'Aula di Montecitorio. Proprio nella giornata di ieri, dopo l'approvazione di sette mozioni sul tema presentate da esponenti di diversi partiti, si è acceso in Aula un dibattito sullo stato attuale del servizio pubblico, sulla sua sostenibilità e sulla condizione di chi lavora al suo interno. Cogliendo l'occasione, abbiamo provato anche noi a fare il punto della situazione andando ad analizzare come il Ssn sia di fatto cambiato in questi ultimi 15 anni.

Partiamo da uno dei dati più evidenti: il numero di posti letto disponibili nelle strutture sanitarie. Nel periodo 2000-2013, la riduzione ha raggiunto una quota del 24%, pari a meno 71.233 letti. Come se non bastasse, dai nuovi standard ospedalieri si aspetta ora un’ulteriore riduzione di circa 3.000 letti nei prossimi anni. I posti letto pubblici, che nel 2000 erano in percentuale 5,1 per 1.000 abitanti, scenderanno così a 3,7.

Meno letti, ma anche meno ospedali. Se si guarda alla situazione delle strutture di ricovero, il quadro è lo stesso dei letti. Se, infatti, nel 2001 tra pubblico e privato si raggiungeva quota 1.308 strutture, nel 2012 se ne contano solo 1.091 (Corte dei Conti). Un calo del 17%, e quasi tutto concentrato nel pubblico dove nell'ultimo decennio è stato chiuso un ospedale su quattro. Il risultato finale di tutto questo parla chiaro: se nel 2001 le strutture private rappresentavano il 41%, nel 2012 esse sono diventate il 47%. In Italia, quindi, quasi una struttura sanitaria su due è ormai privata.
 
In questo scenario, al taglio di letti e ospedali, doveva corrispondere un forte sviluppo dell'assistenza sul territorio. Ma il sistema che viene fuori dai numeri, oltre a far emergere molte differenze tra le varie regioni, non sembra essere ancora sufficiente alle necessità Dal 2001 è sceso di circa 7% il rapporto tra il numero di abitanti e medici di famiglia e pediatri. In sostanza ogni camice bianco deve assistere più pazienti. Poi si è registrato il brusco calo dei laboratori di analisi: dal 2001 al 2012 ce ne sono il 33% in meno. In calo anche i servizi di guardia medica. È invece cresciuta l’assistenza domiciliare integrata (nel 2001 venivano assistiti 270 mila pazienti mentre nel 2012 sono 633mila). Ma all’aumento dei pazienti trattati non è corrisposto un aumento delle ore dedicate ad ogni singolo paziente. Anzi: 5 ore di assistenza medica in meno per paziente (nel 2001 in media 27 ore, nel 2012 sono 22) e 6 ore in meno di assistenza infermieristica (erano 22 ore nel 2001 mentre sono scese a 14 nel 2012). In sostanza si assistono più persone ma con meno tempo da dedicare ad ognuna. Sono raddoppiati invece i posti per le strutture residenziali e semiresidenziali (arrivati a quota 274.905), soprattutto private accreditate. 

Per quanto riguarda poi le famose Case della Salute esse sono ancora poche: al 2013 ne risultano 123 ripartite tra Toscana (50), Liguria (3), Emilia Romagna (49), Umbria (2) Molise (4), Marche (14), Lazio (1). Ci sono poi 42 Presidi Territoriali di Assistenza (PTA), dei quali 35 nella Regione Sicilia, 5 nel Molise e 2 in Abruzzo;  34 Unità Territoriali di Assistenza Primaria (UTAP), delle quali 32 nella Regione Veneto e 2 nella Regione Abruzzo; e 175 Aggregazioni Funzionali Territoriali (AFT), delle quali 164 attivate nella Regione Veneto e 11 nella Regione Basilicata. 

A tinte fosche e anche in questo caso con il segno meno davanti è la situazione di chi nel Ssn ci lavora. Senza, infatti, dover andare troppo indietro nel tempo, il blocco del turn over per il personale, attivo ormai dal 2009, ha di fatto impedito il ricambio generazionale mandando in fumo le speranze di tanti giovani camici bianchi, e prodotto fino ad oggi una riduzione di quasi 24mila unità. Una tale riduzione rende del tutto evidente l'aumento del carico di lavoro ricaduto sulle spalle dei medici e degli altri operatori, il tutto a stipendio bloccato.

Infine, vediamo quali sono state le ricadute di tutto questo sui fruitori finali del servizio: i cittadini. Cominciamo dai ticket. La spesa per quelli su farmaci, visite ed esami specialistici e pronto soccorso è arrivata nel 2014 a quota 3 miliardi di euro. Solo per fare un esempio degli aumenti degli ultimi anni prendiamo in esame il ticket sui farmaci. Nel 2008 questo valeva 650 mln di euro, mentre nel 2014 è arrivato a quota 1,5 mld (Corte dei conti). Più del doppio. E che dire del super ticket da 10 euro sulla specialistica reintrodotto nel 2011 (il suo valore ammontava a 800mln)? Il tutto senza dimenticare la frammentazione e le diseguaglianze che caratterizzano i 21 sistemi regionali sui ticket e non solo.

Ancora più in generale, la spesa out of pocket, ossia quella affrontata di tasca propria dai cittadini per usufruire di servizi che, in buona parte, dovrebbero essere garantiti dal Ssn, è arrivata a quota 33 miliardi (indagine Censis). Una cifra monstre se la si raffronta con la spesa per l'intero Ssn che è a quota 111 miliardi. A vedere i numeri sembra quasi che più di un terzo dei bisogni di salute degli italiani non riescano ad essere soddisfatti dal Ssn, per cui sono i cittadini a pagarseli da soli. E in effetti l'Ocse ci dice che il nostro servizio risulta essere sottofinanziato di almeno 18 miliardi rispetto alla media degli altri Paesi dell'Organizzazione. 
 
A conti fatti, quindi, negli ultimi 15 anni, è cresciuta esponenzialmente la spesa privata e la compartecipazione dei cittadini, che, a fronte di difficoltà dovute ad una evidente riduzione dell'offerta pubblica (a proposito per il 2015 è previsto un taglio da 2,6 mld), hanno cominciato a rivolgersi sempre più al privato. Privato che, in controtendenza, ha acquisito sempre più quote fino ad arrivare a rappresentare quasi il 50% dell'offerta sanitaria. Si sta privatizzando la sanità, come anche ieri in Parlamento qualcuno ha detto?
 
I numeri sembrerebbero dare ragione a questa tesi. Ma in realtà non c'è un disegno politico chiaro in questo senso e, a nostro avviso, neanche la volontà di farlo. La realtà è semmai la conseguenza di una incapacità e di una lentezza cronica da parte delle amministrazioni di attuare tutta quella programmazione prodotta nell'ultimo decennio. I cambiamenti che avrebbero mandato in crisi il Ssn - dall'allungamento della vita all'aumento delle cronicità - erano noti da tempo, eppure è mancata la capacità di portare a compimento quelle misure che avrebbero messo in sicurezza il sistema. Insomma, tanto per fare alcuni esempi concreti, di riforma del territorio se ne parla da 20 anni, la revisione dei Lea è al palo dal 2001 ed ancora oggi i nuovi Lea non decollano nonostante gli impegni presi nell'ultimo Patto per la Salute. 

Ma, nonostante tutto ciò, il sistema sanitario pubblico italiano, non solo è vivo, ma è anche un'eccellenza a livello mondiale. O almeno è così in una parte del Paese. Senza girarci troppo intorno, ci sono realtà regionali in cui è presente un servizio pubblico che ci viene invidiato da tutto il mondo ed altre in cui quest'ultimo va garantendo sempre meno ai cittadini. Un gap che non si è di certo ridotto con il passaggio delle competenze sulla materia alle Regioni con la riforma costituzionale del 2001 e che non è destinato a ridursi se non si avrà il coraggio d'intervenire. 

Luciano Fassari e Giovanni Rodriquez 

Fonte: Quotidiano Sanità - 18 giugno 2015

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