Ma perché solo i dirigenti hanno la “deroga” all’esclusività con il Ssn? Una proposta per superare il “doppio binario”

Ma perché solo i dirigenti hanno la “deroga” all’esclusività con il Ssn? Una proposta per superare il “doppio binario”

Ma perché solo i dirigenti hanno la “deroga” all’esclusività con il Ssn? Una proposta per superare il “doppio binario”

In periodi di crisi diventano problematiche le applicazioni di norme che colpiscono le storiche incompatibilità tra lavoro pubblico e privato.
Sono noti i presupposti che sanciscono l’incompatibilità sin dagli anni cinquanta dello scorso secolo e che vantano radici costituzionali. Il pubblico dipendente è quindi “al servizio esclusivo della nazione” e i pubblici uffici devono garantire “il buon andamento e l’imparzialità”.

L’esclusività e la fedeltà diventano quindi principi fondativi del rapporto di pubblico impiego. Ricordiamo, però, che per antica tradizione normativa, i pubblici impiegati erano appunto impiegati – nel senso di amministrativi – e di conseguenza il timore che l’apparato dell’amministrazione pubblica risultasse condizionato da interessi privati era rilevante.
Le amministrazioni e le aziende pubbliche oggi spesso erogano servizi come nel caso della sanità e l’esclusività, proprio nel settore sanitario, è solo riferita al personale del comparto con esclusione, pressoché totale di tutta la dirigenza (sanitaria in senso lato).

La differenza con il settore privato è sostanziale, non solo perché non sussistono in genere questioni di esclusività, ma laddove esistono sono applicate proprio al settore della dirigenza per le evidenti relazioni tra le decisioni che questa può prendere e gli interessi privati che sottostanno alle decisioni.

Rimaniamo nel comparto. Le attività ulteriori rispetto al rapporto di lavoro con una pubblica amministrazione sono riconducibili a tre tipologie:
1) quella delle attività del tutto incompatibili;
2) quella delle attività in astratto incompatibili, ma autorizzabili dall'Ente di appartenenza, previa verifica in concreto dell'assenza di ragioni ostative;
3) quella delle attività liberamente esercitabili, o in ragione dell'assenza di compenso, o perché, seppure remunerate, sono dalla legge direttamente ammesse.

Sulle prime la ratio della norma è assolutamente comprensibile. L’interesse primario di non svolgere attività in concorrenza o che danneggino l’imparzialità dell’azione pubblica non può essere messa in discussione. Il punto sub 3) attiene a quelle attività – pubblicazioni, docenze ecc. – che attengono, anche, a diritti costituzionali riconosciuti a ogni cittadino, e quindi anche. ai pubblici dipendenti.

Concentreremo la nostra attenzione sulle attività sub 2) relative anche alle modifiche intervenute con la legge c.d. anticorruzione. Le attività autorizzabili sono disposte “dai rispettivi organi competenti secondo criteri oggettivi e predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell'interesse del buon andamento della pubblica amministrazione o situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi, che pregiudichino l'esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente” (art. 53 D. Lgs 165/2001). Una volta tenuto conto di queste limitazioni le attività sono autorizzabili non solo verso altre pubbliche amministrazioni ma anche verso società private che svolgano attività “di impresa o commerciale”.

Non vi sono dubbi che il cancro da combattere sia il “conflitto di interesse”. Un infermiere, un fisioterapista, un’ostetrica (o anche un amministrativo che svolge, lo rileviamo dalla casistica attività di amministratore di condominio) che svolgano la propria attività in regime libero professionale o alle dipendenze di qualche struttura in contesti territorialmente extra-aziendali (nel caso delle aziende sanitarie) e comunque attività non riconducibili alla mission aziendale delle aziende ospedaliere non recano alle strutture alcun nocumento reale se non quelle relativo al mancato recupero psico-fisico durante il periodo di riposo. Quest’ultimo argomento però non è di alcun pregio vista la legislazione autorizzatoria sulla dirigenza medica e veterinaria che dovrebbe avere un maggior stringente rapporto con l’azienda per il maggiore debito orario (38 ore in luogo di 36) dovuto.

Il vero e proprio punctum dolens della situazione si ha sulle attività non autorizzate in quanto mancanti proprio di autorizzazione perché non richiesta. Le ragioni risiedono nella nota riluttanza delle pubbliche amministrazioni a concedere l’autorizzazione combinata con il timore del dipendente a ricevere un diniego. Ecco allora l’emergere di situazioni ampie di non regolarizzazioni di attività di secondo lavoro dei dipendenti pubblici. In questi ultimi quindici anni il sistema sanzionatorio si è fatto durissimo. Dalla metà degli anni novanta il secondo lavoro non autorizzato è diventato giusta causa di licenziamento e con l’obbligo di recuperare “il compenso dovuto per le attività svolte” e, per effetto delle innovazioni dovute alla legge anticorruzione, “l'omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.

Assistiamo sostanzialmente a un doppio binario: da un lato una legislazione sempre più rigorosa e dura sul doppio lavoro per il personale del comparto dall’altro una sostanziale liberalizzazione per la parte che più dovrebbe essere sottoposta all’esclusività: la dirigenza.
Le sanzioni appaiono sproporzionate, eccessive, fuori misura e, quindi, ingiuste. Licenziamento senza preavviso e recupero totale delle somme “indebitamente” percepite equiparano di fatto il lavoro “non autorizzato” con il lavoro illegale. Non si potrebbe spiegare altrimenti la norma del recupero della retribuzione del lavoro secondario come una sorta di recupero di somme che sono il frutto del reato.

La clava dell’azione disciplinare e del licenziamento viene brandita verso il solo personale del comparto reo, quindi, di non ottemperare a quell’obbligo di esclusività a cui solo lui è tenuto e a cui non è tenuta, come abbiamo detto la dirigenza.
E’ la più classica delle norme classiste: debole con i forti e forte con i deboli. Eticamente e moralmente inaccettabile perché colpisce lo stato di bisogno che ha portato il dipendente pubblico a sacrificare il proprio tempo libero in favore di un’altra attività lavorativa. Non colpisce il lavoro svolto “in nero”, contro cui non vi sono generalmente prove, colpisce il lavoro “legale non autorizzato”, il lavoro per il quale il lavoratore ha pagato le tasse e i contributi.

E’ una norma dichiaratamente anticostituzionale: non rispetta il principio di uguaglianza (art. 3) ed espropria il lavoratore della retribuzione percepita in virtù della sua attività lavorativa che si accanisce proprio verso coloro che, spesso, vedono vanificato l’altro diritto costituzionale che sancisce il diritto ad avere una retribuzione “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa” (art. 36). In virtù di politiche di blocco salariale che perdurano da molti anni e perdureranno anche per tutto il 2015 vi sono fasce di lavoratori che cercano le risorse per andare avanti con il metodo più classico per reperirle: il lavoro. E proprio sul lavoro vengono colpite fino alla loro completa rovina: licenziamento da dipendente pubblico e il recupero del frutto lavoro da attività secondaria. Il tutto in una Repubblica, come la nostra, proprio “fondata sul lavoro”.

Non si tratta di difendere il dipendente doppiolavorista “infedele” ma di riportare nei giusti binari l’inosservanza di precetti pensati, ab origine, per coloro che lavoravano nella amministrazioni centrali dello Stato, portatori di interessi e di “segreti” che non dovevano essere minati nell’indipendenza da interessi economici dovuti ad altre attività.

Nel servizio sanitario nazionale l’esercizio della professione o di altra attività non correlata ai doveri d’ufficio però non pone conflitti normativi generali visto la deroga concessa alla dirigenza medica e veterinaria e alla restante dirigenza sanitaria.
Le strade percorribili sono due: a) una liberalizzazione dell’attività lavorativa secondaria nella parte in cui non determina un conflitto di interesse con la pubblica amministrazione; b) una riforma del sistema sanzionatorio a legislazione autorizzatoria invariata.
La prima necessita di un lungo dibattito e di una riforma complessiva. Con la seconda si possono riportare velocemente le questioni su un più corretto binario fermo rimanendo il regime delle incompatibilità.

Proponiamo quindi ai parlamentari di buona volontà– essendo sempre convinti che il Parlamento e non il Governo devono avere il ruolo legislativo centrale – i seguenti emendamenti alla legislazione sulle incompatibilità:
a) Modifiche all’art. 1, comma 61 della L. 23-12-1996 n. 662 “Misure di razionalizzazione della finanza pubblica”.
E’ così riformulato (in grassetto le modifiche).
1. 61. La violazione del divieto di cui al comma 60, la mancata comunicazione di cui al comma 58, nonché le comunicazioni risultate non veritiere anche a seguito di accertamenti ispettivi dell'amministrazione costituiscono giusta causa di recesso per i rapporti di lavoro disciplinati dai contratti collettivi nazionali di lavoro e costituiscono causa di decadenza dall'impiego per il restante personale, sempreché le prestazioni per le attività di lavoro subordinato o autonomo svolte al di fuori del rapporto di impiego con l'amministrazione di appartenenza non siano rese a titolo gratuito, presso associazioni di volontariato o cooperative a carattere socio-assistenziale senza scopo di lucro. Se l’attività lavorativa, svolta fuori dal rapporto di impiego pubblico, non comporta conflitto di interesse o incompatibilità palese con l’attività della pubblica amministrazione, è prevista l’irrogazione della sanzione disciplinare della sospensione dal lavoro fino a venti giorni.
Le procedure per l'accertamento delle cause di recesso o di decadenza devono svolgersi in contraddittorio fra le parti.

b) l’articolo 53 comma 7, secondo periodo, del D. Lgs 165/2001 è così riformulato:
In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti solo nei casi di conflitto di interesse e incompatibilità palese tra il rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione e l’attività lavorativa o gli incarichi ulteriori. Negli altri casi la sanzione viene determinata con una percentuale dal 5% al 10% del compenso percepito nell’ultimo anno solare.

Queste modifiche si rendono necessarie per riportare nei giusti canoni di ragionevolezza la questione affrontata.

Luca Benci
Giurista

Fonte: Quotidiano Sanità - 11 gennaio 2015

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